di Khaled Fouad Allam
da "La Stampa" del 19 gennaio 2001
Caro Franco, il tuo digiuno mi ha colto di sorpresa; io musulmano,
sin da piccolo abituato a digiunare per ritualità. Da noi
tutti o quasi tutti dovrebbero fare il digiuno, i re come i presidenti
come i ministri come il popolo, ma in Italia che un sottosegretario
alla Giustizia responsabile per le carceri, membro dunque del governo,
si metta a digiunare rende ancora più clamorosa la tua decisione.
Sarebbe troppo facile dire che il tuo gesto è di tipo gandhiano,
perché non rende verità alla tua battaglia.
Vedi Franco, il corpo è l'unico linguaggio reso a noi possibile
quando le parole si indeboliscono, quando sono attraversate da anemia
acuta, quando l'autorità non è più autoritas,
ma solo forma monotona di conservazione del potere. Il tuo digiuno
- per sollecitare un'assunzione di responsabilità sul provvedimento
detto «indultino» - annuncia il dramma della politica,
un po' ovunque intrappolata fra buonismo e dialettica perversa del
discorso sulla sicurezza. In una società che ragiona essenzialmente
in termini di sicurezza, non posso non constatare che viviamo in
un periodo di debolezza e fragilità e la paura domina su
gran parte del nostro agire: giustizia, immigrazione, religione.
Su questo, invece, la politica dovrebbe innovare, avere il coraggio
dell'intelligenza. Ma non succede questo.
Il marketing da quattro soldi della politica sta condannando la
stessa a un silenzio preoccupante e, sull'indulto, il tacere è
di rigore; come tu hai sottolineato, nemmeno le parole del Santo
Padre sono arrivate a decongestionare la confusione generale, l'impaurimento.
Il risultato è che, come recita un proverbio indonesiano,
siamo come la civetta che di notte guarda la luna: non si incontreranno
mai, ma loro due si guardano. Spero che la tua battaglia, che questo
tuo corpo a corpo con la realtà, renda intelligibilità
alla stessa politica; in questo deserto che non ha nemmeno la dignità
del deserto.
(19 gennaio 2001)
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