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Intervento al convegno "I servizi di orientamento al lavoro penitenziario"
Pescara 26 ottobre 2000.

Vi ringrazio per l'invito a questo incontro di lavoro che propone un ragionamento che potrebbe avere come titolo: "Passare dalle intenzioni alle buone azioni". Noi abbiamo la necessità di praticare quello che abbiamo sostenuto in molte occasioni, nel senso di partire dalla consapevolezza che la composizione della popolazione detenuta è assai particolare, perché il carcere in questi anni è stato caricato di funzioni che non sono proprie di un'istituzione totale; il carcere cioè è stato utilizzato come luogo di risoluzione di quelle che io stesso chiamo ferite sociali rappresentate dalla tossicodipendenza, dall'immigrazione, dalla malattia mentale, dal disagio in tutte le sue forme, dall'emarginazione, dalla marginalità sociale.

Ritengo che nel carcere siamo obbligati a porci in primo luogo il problema della salute in quanto dobbiamo restituire alla società dei cittadini sani; poi abbiamo il problema della formazione, del lavoro e quindi del reinserimento o in molti casi dell'inserimento sociale in quanto molte persone non sono mai state inserite nella società, oltre a far acquisire il diritto di cittadinanza attraverso il carcere. Costituisce un paradosso sostenere che il diritto di cittadinanza e l'inclusione sociale si realizzino attraverso il carcere che è un'istituzione totale, non avendo quest'ultima nel suo codice genetico tale compito. Chi lavora nel carcere ha il compito straordinario di indicare come realizzare la riforma del welfare, dello stato sociale.

Nel carcere c'è il problema della socializzazione o risocializzazione; il problema del lavoro oggi riguarda l'aumento della responsabilità e dell'autonomia dei soggetti, e non quindi la dimensione del lavoro forzato. Il problema della qualità del lavoro è un problema relativo al valore morale ma anche al valore economico, alla redditività del lavoro.

Con riferimento al detenuto tossicodipendente c'è il problema di quale lavoro possiamo offrirgli, in quali condizioni lo poniamo poi di fronte al lavoro fuori e dentro il carcere.

All'interno del carcere non possiamo pensare di fare il cottimo, o di fare otto, dieci ore di straordinari, in quanto nel carcere vi è anche il problema degli incontri con gli avvocati, parenti, magistrati, di tutto ciò che va sotto la voce "trattamento", dei rapporti con gli operatori.

Al di fuori del carcere il problema da affrontare è quello della tossicodipendenza; occorre attuare fuori una politica sulle droghe intelligente e pragmatica; oltre poi al problema del lavoro come condizione di vita reale, non idilliaca o ipotizzata, ma concreta con riferimento alle persone e ai dati.

Il lavoro che abbiamo fatto in questi anni, comincia a dare qualche risultato in cifre; nel 1990 avevamo trentamila detenuti e lavoravano in dodicimila.

Oggi abbiamo superato il tetto dei 54.000 detenuti di cui 12.591 sono detenuti lavoranti con una inversione di tendenza rispetto ai dati fino al 1990 nel senso cioè che aumenta il lavoro fuori dal carcere nelle diverse ipotesi di lavoro esterno, lavoro in cooperativa, presso gli enti sociali, lavori socialmente utili. Invece, quanto al lavoro domestico, interno al carcere il dato è sempre fisso e si aggira più o meno intorno alle diecimila unità.

Siamo di fronte però ad una inversione di tendenza, in quanto dall'anno scorso ci sono un migliaio di posti di lavoro in più, qualitativamente migliori.

Il lavoro presentato oggi dalla dott.ssa Culla è significativo di uno sforzo che si è fatto a livello italiano, per mettere in relazione l'Italia con il mondo, con l'Europa.

Abbiamo approvato la legge Smuraglia, e fra pochi giorni firmeremo un protocollo di intesa tra il Ministero della Giustizia e il Ministero del Lavoro per far incontrare la domanda e l'offerta, per rendere cioè nota alle imprese la mappa delle competenze di cui disponiamo, e quindi consentire l'incontro nel mercato del lavoro della domanda e dell'offerta.

Affinchè si passi dalle intenzioni alle buone azioni occorre che ci sia l'incontro con gli Enti Locali, con la Regione, la Provincia, il Comune; occorre creare un rapporto con gli imprenditori e i Sindacati, le cooperative e il privato sociale. Se riusciamo a tenere assieme tutto questo, possiamo avere dei risultati.

Anche per l'Abruzzo, noi dobbiamo realizzare nei settori che sono stati ricordati anche da Di Marcoberardino, quali l'agricoltura, il turismo, l'ambiente, l'artigianato, degli ambiti in cui vi può essere lavoro innovativo; non possiamo infatti pensare di offrire lavori arretrati, ma dobbiamo offrire un lavoro stimolante.

Per esempio un settore che potrebbe essere stimolante (le informazioni non so se sono superate), riguarda la lavorazione della tessitura, al momento purtroppo ferma; non possiamo consentire di tenere vasti spazi con una lavorazione possibile e pregiata ma ferma.

In Italia cominciano ad esserci esperienze importanti come quella dell'impresa Logos che si occupa di informatica e che ha dato lavoro a venti detenuti del carcere Dozza di Bologna; inoltre socio della Logos è l'azienda Compaq che si occupa di Internet e quindi il lavoro per i detenuti sarà quello di portare su Internet libri di letteratura, di scienza e di cultura scelti dagli editori.

A San Vittore, ad esempio il giornale dei detenuti dal titolo Magazine 2 è entrato su Internet e quindi oltre al giornale di carta c'è anche quello on line.

Questo quadro dà l'idea di cosa è il mondo del carcere, luogo dove oltre alle cose negative si è al passo con lo sviluppo più avanzato.

A Bollate finalmente si aprirà un nuovo istituto che si concepirà come il primo esempio di carcere in cui il fondamento sia il lavoro.

Sul carcere noi certamente scontiamo il trionfo dei luoghi comuni, e quindi andiamo controcorrente rispetto a chi considera il carcere come luogo chiuso in cui i detenuti sono in cella venti ore al giorno e con il risultato poi di mettere in atto un processo deleterio che è quello dell'incattivimento, della recidiva e dell'insicurezza.

In sostanza, chi è preoccupato della convivenza nelle città e anche della presenza di atti continui di criminalità diffusa, di microcriminalità, deve ragionare su un progetto che invece rompa questa spirale, e che quindi condivida l'idea che da questo vortice si possa uscire affrontando il processo dell'inclusione sociale, e quindi l'idea che la sicurezza delle nostre città deriva non più da porte blindate, ma da più sicurezza sociale.

Questo progetto, che in Italia è servito per creare una rete di relazioni internazionali, di operatori capaci, deve essere rafforzato e utilizzato in quanto si inserisce in un quadro di volontà che noi abbiamo espresso con le leggi, con i primi risultati, con le sperimentazioni; ad esempio, il lavoro che si fa in Lombardia con le Aziende sanitarie per il trasporto su elaboratori delle ricette farmaceutiche, si potrebbe fare anche in Abruzzo. Il problema è che queste piccole esperienze non devono essere più una testimonianza di quello che si può fare, ma una pratica generalizzata di una politica diffusa.

Se ce la faremo, questo ci potrà aiutare nel compito di realizzare una società che non abbia muri, una società che affronta tutte le contraddizioni affidandole a qualcuno che le gestisca nel silenzio o nell'ombra.

Questo convegno è importante perché contribuisce a togliere il carcere dall'ombra, lo si fa diventare uno elemento della società.

Per fare questo occorre che l'Amministrazione, il Ministero e tutta la rete che è stata messa in campo oggi e in particolare anche l'Università, ci aiuti ad affrontare anche il problema della formazione del nostro personale.

Noi abbiamo un personale motivato, ricco di passione civile, che deve essere incentivato attraverso la formazione a partecipare attivamente, e rispetto al quale deve essere chiaro il progetto.

In questa sfida noi possiamo avere successo se tutto il personale dell'Amministrazione è coinvolto anch'esso in progetti formativi, da quelli specifici per il lavoro a quelli per l'orientamento.

Per convincere i cittadini che questa è una buona pratica che va a vantaggio di tutta la società, occorre che innanzitutto il personale sia convinto di questo, e guai se invece noi pensassimo che già all'interno del carcere c'è qualcuno che dice: "Questo è quello che si fa per i detenuti, e per noi cosa si fa?".

Questa è una sfida straordinariamente ricca, bella, e dobbiamo pensare che nella nostra società occorre un sistema delle pene, che oltre al carcere preveda pene alternative che siano immediate, efficaci, credibili, convincenti, riparative, soprattutto considerando le vittime del reato, e quindi il danno inferto al singolo, alla società.

Per far funzionare una società c'è bisogno di reti e di capacità di relazioni; solo così tutto lo sforzo delle pene alternative, e del lavoro può avere successo. Se nella società trionfa l'individualismo e l'egoismo, questo progetto non ce la può fare, non può camminare.

Questo progetto ha quindi una valenza che non è solo pratica, ma anche culturale, politica, di assetto, che si confronta con ciò che vogliamo della nostra società, delle nostre città.

Naturalmente se si creano i ghetti, le periferie invivibili, è difficile pensare che ci sia una rete in grado di introdurre qualcuno che è stato espulso.

L'incontro di oggi con tante rappresentanze delle istituzioni democratiche, mi fa dire che questo è un progetto per praticare la democrazia, e solo se si pratica la democrazia noi abbiamo la possibilità di farcela e di avere quindi quella che si può dire con uno slogan che può apparire banale, una società migliore.

Grazie.